Un "raggio di sole" sul Laocoonte
Concluso il restauro, intrapreso con il sostegno degli Amici degli Uffizi, del famoso gruppo di Baccio Bandinelli di cui si è recuperata la prorompente e languida espressività. Sul piedistallo campeggia l'emblema di papa Clemente VII
Le analisi e il restauro del monumentale gruppo marmoreo del Laocoonte di Baccio Bandinelli sono giunte al termine, a un anno circa dall'inaugurazione del cantiere. Cantiere rimasto sempre 'aperto per restauri' per i visitatori interessati ad affacciarsi alle pannellature trasparenti della schermatura e per piccoli gruppi di studiosi e appassionati, su appuntamento. Le indagini diagnostiche, a cura dell'Istituto per la Conservazione e Valorizzazione dei Beni Culturali del CNR (ICVBC-CNR, responsabile Susanna Bracci) e dell'Istituto di Fisica Applicata 'Nello Carrara' del CNR (IFAC-CNR, responsabile Marcello Picollo), insieme alla pulitura delle superfici operata dalla Meridiana Restauri di Alberto Casciani, hanno permesso di verificare sia le vicende creative dell'opera sia quelle della storia della sua conservazione, fornendo risultati di grande interesse. Com'è noto da una lettera a Michelangelo di Leonardo Sellaio, agente a Roma del banchiere Pierfrancesco Borgherini, Bandinelli, incaricato nel 1520 di realizzare per Francesco I di Francia una copia dell'originale ellenistico affiorato quattordici anni prima a Roma nei pressi di Santa Maria Maggiore, ultimò entro un mese il cartone dell'opera e, dopo averlo sottoposto a Sebastiano del Piombo, l'avrebbe mostrato anche a Michelangelo prima di mettersi al lavoro, così sintetizzato da Sellaio: 'Allo a fare di marmo, e fallo di pezzi'. Il ricorso a più blocchi di marmo, non approvato da Michelangelo, rientrava nella consuetudine di Bandinelli; d'altro canto, di fronte al giudizio critico del 'primo scultore di Roma', Baccio poteva comunque appellarsi all'autorevolezza del modello antico, che era stato inequivocabilmente condotto allo stesso modo, a differenza della testimonianza contraria di Plinio il Vecchio. Per scolpire il gruppo, fu permesso a Baccio di lavorare nel Belvedere vaticano, dove era stato destinato l'originale. L'opera, orgogliosamente firmata dallo scultore, si concluse sotto il papato di Clemente VII, che ha lasciato traccia della sua committenza nei rilievi sui lati brevi del piedistallo in cui è rappresentato il suo concettoso emblema: un raggio di sole attraversa una sfera di cristallo trasparente e candida (come l'animo di Clemente VII) e incendia un albero retrostante. Il motto frammentario 'candor illaesus' accompagna l'impresa. I dati raccolti durante le analisi (documentazione fotografica a fluorescenza UV, colorimetria effettuata su aree selezionate prima, durante e dopo la pulitura, spettroscopia in riflettanza mediante fibre ottiche nelle regioni UV-visibile-vicino infrarosso per caratterizzare i materiali, microscopia ottica, spettroscopia FT-IR per la caratterizzazione di patine, stuccature, ecc.) e i restauri, che saranno editi dopo la presentazione al pubblico, hanno confermato e precisato quanto riportato dalle fonti, anche in relazione alle conseguenze del devastante incendio che divampò nel terzo corridoio della Galleria nel 1762, danneggiando pesantemente i marmi esposti. La nitidezza della lettura del gruppo si è notevolmente avvantaggiata dopo la rimozione (con il ricorso anche ad una innovativa tecnologia laser) delle vecchie patine e delle stratificazioni di polvere ormai radicate sulla superficie, restituendo al marmo tutta la prorompente espressività che nei secoli l'ha reso noto quanto il reperto antico. Questo intervento, ancora una volta frutto della generosa sensibilità degli Amici degli Uffizi, ha aperto nuove opportunità di conoscenza di questa straordinaria opera, che non raggiunse mai la Francia ma trovò posto in una nicchia del giardino di Palazzo Medici in via Larga, vicino all'Orfeo scolpito dallo stesso Baccio, anch'esso 'in gara' con l'antico.
Francesca de Luca